martedì 17 marzo 2009

Ancora guerra in Congo

La situazione in Congo nelle ultime settimane è ulteriormente peggiorata, le truppe ribelli comandate dal generale Laurent Nkunda avanzano nuovamente verso la capitale Brazzaville scontrandosi con gli uomini dell’esercito regolare congolese, ed arrivando a conquistare la zona est del paese, la provincia nord di Kiuv. Oluseguin Obasanjo, inviato dell’O.N.U. e presidente nigeriano, ha chiesto al leader dei ribelli di chiarire le sue richieste. Nkunda ha fatto sapere che la prima cosa da fare per risolvere il conflitto è che il presidente del Congo, Joseph Kabila, accetti di trattare con i guerriglieri, altrimenti “sarà guerra”. L’incredibile esplosione di violenza ripresa dopo anni di fragile tregua (2003-2006), vede in numerosi casi violazioni dei principali diritti umani. L’Alto commissario delle nazioni unite, Navi Pillay, denuncia un tremendo “deterioramento della situazione” ed il verificarsi di omicidi e torture “nelle forme più brutali”. Come ormai purtroppo sembra essere divenuta consuetudine, nelle guerre sono sempre le fasce più deboli a subire le conseguenze peggiori. Oltre la terribile vicenda dei “bambini soldato” (si conta fossero 27 mila fino al 2006) una tragedia nella tragedia, a subire il peso del conflitto, sono le donne in particolare. Spesso oggetto di stupri e maltrattamenti di vario genere, sono tra coloro che più di tutte soffrono lo scontro tra ribelli e governo congolese. Il segretario generale delle nazioni unite Ban ki-moon, sostiene che il problema “ha raggiunto proporzioni inimmaginabili ed endemiche in alcune società”. La gravità della condizione femminile, viene confermata anche dall’ex comandante delle forze di peecekeeping Patrick Cammeret; “probabilmente è diventato più pericoloso essere una donna che un soldato durante i conflitti armati”. Sia l’ O.N.U. che l’Unione Europea, hanno chiesto a più riprese, ad ambo le fazioni in lotta, di porre immediatamente fine a queste ripetute violazioni dei diritti elementari, e di lavorare per il raggiungimento di un’intesa. Nel tentativo di evitare che quella che è apparentemente cominciata come una serie di azioni di guerriglia contro il governo congolese divenga una nuova guerra, le nazioni unite hanno deciso di inviare altri 3 mila soldati nel territorio africano. I caschi blu gia presenti in Congo erano 17 mila, oggi divenuti 20 mila per via dei nuovi innesti. Le truppe allestite come mezzo di interposizione tra gli uomini di Nkunda e quelli del presidente Kabila, fanno parte del più grande progetto di peeacekeeping mai attuato dal Consiglio di sicurezza, ed il suo nome è Monuc. In realtà molte organizzazioni non governative ed associazioni di tutela dei diritti umani, hanno fino ad ora messo in evidenza l’incapacità di questo enorme contingente nel prevenire le situazioni di tensione, e sperano che sia fatto invece un lavoro maggiore nel campo diplomatico. Tuttavia, l’O.N.U. non sembra voler raccogliere l’indicazione dei civili sul posto, e sta pressando l’Unione Europea affinché invii anch’essa nuove forze militari. La U.E. invece sembra invece orientata a dar maggior credito ai consigli delle O.N.G. e, nonostante il fallito tentativo di mediazione dei ministri degli esteri francese e inglese, Bernard Kouchner e David Milband, lavora ancora in questo senso. La situazione, nell’attesa che la diplomazia faccia il suo corso e si trovino delle possibili soluzioni, peggiora di giorno in giorno. Sono ormai circa 250 mila i profughi che dal Congo si dirigono verso il confine con il Ruanda nel tentativo di scappare alla violenza esercitata sia dai ribelli che dagli uomini del governo. Intanto, nonostante nel sostegno alle truppe del governo congolese vi siano anche militari del Ruanda; sale anche la tensione tra Kabila ed il presidente ruandese, accusato di sostenere e finanziare alcune milizie ribelli nei territori di confine. La minaccia di una nuova guerra in Congo, altro non è che il risultato di negoziazioni mai portate a termine, di toppe e tregue che non sono mai andate al di là del breve periodo. Dopo un parziale congelamento delle armi durato due anni, i ribelli sono tornati a colpire. Queste zone di guerra vivono, non solo il peso di una perenne instabilità politica interna, ma anche le pressioni di vari paesi del mondo che, attraverso i finanziamenti delle parti in lotta, provano ad estendere i loro domini e ad assumere un rilievo di primo piano in quello che purtroppo promette di essere la nuova frontiera della guerra, ovvero quella per l’accaparramento delle risorse energetiche. Perché questi conflitti riescano a trovare soluzioni pacifiche, e soprattutto stabili, occorre una forte e congiunta azione diplomatica dei principali governi del mondo. Come si può verificare dando un semplice sguardo alle zone di conflitto infatti, non bastano azioni lampo che garantiscano un giovamento parziale alle fazioni anteposte, ma serve il raggiungimento di una pace duratura che rappresenti il principio dal quale cominciare un percorso di “normalizzazione” che consenta a questi paesi di intraprendere la costruzione di istituzioni realmente democratiche e radicate nel territorio. E’ importante inoltre che gli interventi volti a risanare le ferite dei conflitti, non vengano visti come tentativi di una nuova colonizzazione, ma che vertano invece a creare un assetto quanto più possibile condiviso e duraturo nel tempo. E’ necessario, oltre che porre fine a questi contenziosi, agire con forza contro le terribili violazioni dei diritti umani che attanagliano questi luoghi. L’attuazione di queste ulteriori depravazioni della guerra come la tortura, gli stupri e l’utilizzo dei “bambini soldato”, rallenta di molto il percorso di pacificazione sociale, e minaccia invece di essere un motivo di futura frizione tra le componenti della società.

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