lunedì 29 giugno 2009

Iran: la terra di mezzo


Le strade di Teheran sono oggi completamente inondate da persone e suoni, le manifestazioni di dissenso si moltiplicano di ora in ora, e con esse le grida della protesta e della repressione. Ma oggi l'Iran non è soltanto un paese sull'orlo di una guerra civile, ma una sorta di ombelico del mondo, una sorta di metafora di uno scontro molto più vasto, una terra di mezzo insomma. La questione iraniana non si esaurisce nella divisione tra i sostenitori di Ahmadinejad da una parte e quelli di Moussavi dall'altra. La frase che più aiuta a comprendere il valore della terra iraniana oggi, è stata pronunciata dal presidente americano Obama in un suo discorso di qualche giorno fa: tutti gli occhi del mondo sono sull'Iran. Tutti osservano quel che accade nelle vie iraniane perchè tutti sono interessati ad un epilogo piuttosto che ad un altro. L'Iran è oggi il terreno nel quale si celebra uno scontro fortissimo: da una parte la logica del conflitto e dell'identità religiosa basata su un senso di appartenenza e rivalsa storica verso i governi anglosassoni. Dall'altra la voglia di pace, collaborazione e dialogo con i nemici di sempre.

In Occidente spesso si sopravvaluta la figura di Ahmadinejad, in molti credono sia una specie di diavolo negazionista con l'intento di donare la bomba atomica al regime. In realtà Ahmadinejad non è molto di più che una maschera della Guida Suprema di Khamenei e del Consiglio dei Saggi. Sono loro che effettivamente gestiscono il potere e il più delle volte imboccano i ragionamenti del leader iraniano. La rivoluzione del 1979 di Khomeini abbattè la monarchia persiana dello Scià con l'aiuto dei mujaiheddin islamici e dei fedayyin (volontari del popolo di ispirazione marxista), ma pian piano furono i religiosi ad assumere il controllo della lotta contro l'autarchia del monarca, riuscendo così a imporre la nascita della Repubblica Islamica. Per quanto la costituzione stabilisse la creazione di due poteri separati, ovvero quello politico del Presidente della Repubblica e del parlamento e quello religioso della Guida Suprema, è a quest'ultima che di fatto facevano capo i veri poteri gestionali. Questo quadro è fondamentale per capire come le tensioni interne iraniane non siano il frutto dell'amministrazione di Ahmadinejad, ma il prodotto di venti anni di oppressione religiosa. Il controllo della Guida Suprema non si esercita soltanto nell'adozione per legge dei precetti islamici, ma anche nel vietare addirittura le candidature di esponenti troppo distanti dall'Islam nelle elezioni presidenziali, e quindi nella possibilità di una censura preventiva da parte di Khamenei. E' questo il senso degli scontri che di ora in ora fanno precipitare la Repubblica sciita nel caos. Ahmadinejad sostiene che dietro le rivolte di questi giorni ci sia la lunga mano americana e inglese. E' plausibile che i governi di Washington e Londra facciano il possibile per destabilizzare il regime e dargli quella spallata che di fatto cambierebbe le carte in tavola nelle relazioni mondiali, ma questo non significa che le proteste vengano portate dall'estero a Teheran. Gli iraniani soffrono una limitazione delle proprie libertà ormai da tempo, e probabilmente hanno capito che mostrare tutta la loro rabbia per il regime in un contesto storico politico ove, ritornando alla frase di Obama, tutto il mondo guarda in quella direzione, avrebbe dato loro maggiore possibilità di riuscita. E' difficile prevedere come finirà la rivolta ora in corso nelle strade nel breve periodo, ma si può pronosticare che nel lungo, se il regime manterrà la logica della repressione, la sua vita non sarà duratura. E' improbabile infatti che le vicende di questi giorni si sgonfino cosi' tanto da ricollocare il paese in uno status di sonno apparente. Certo è nello stesso modo complicato credere che il regime abbia poche opportunità di sopravvivere una volta riaperta la libertà di stampa, di associazione e di espressione, ma è vero che se l'obbiettivo della Guida Suprema è conservare un ruolo centrale nella politica iraniana negli anni futuri, non potrà resistere ancora per molto se non passando per una sconfitta. Nonostante i principali leader internazionali si celino nei telegiornali nazionali e non dietro parole di imparzialità o al massimo di condanna delle violenze del governo iraniano, è evidente che una caduta del regime aprirebbe una nuova fase storica nella quale sarebbe possibile dare una nuova svolta alla stabilizzazione dei territori mediorientali. Semplicemente non avendo Teheran come nemico, molte cose potrebbero cambiare in Pakistan, Afghanistan, Irak, Libano, Siria, Palestina e altri paesi. Questo i leader occidentali lo sanno bene, e nonostante abbiano avuto delle timide aperture anche dal governo di Ahmadinejad, lo cambierebbero volentieri con un altro interlocutore. Le timide condanne che arrivano in questi giorni da Stati Uniti e Europa non sono soltanto il frutto del nuovo corso dell'era Obama, ma anche la timidezza determinata dal parteggiare troppo per una rivolta che forse verrà sconfitta e che seguita con troppa partecipazione rischierebbe di bruciare i passi in avanti fatti fino ad ora con il governo iraniano. L'ago della bilancia rimangono quindi quelle strade, è li che si ripone la speranza di sbrogliare la matassa e dar vita a un nuovo corso se possibile, o ricominciare da dove ci si era lasciati.


BCE: moneta senza frontiere


Continua all'interno dell'Unione Europea l'annoso dibattito alla ricerca di un'identità e di un progetto politico comune. Dalla sua costituzione in poi, tra tentennamenti, battute d'arresto e buone notizie, il percorso sembra ancora piuttosto lungo e tortuoso. Nel pieno della odierna crisi economica, uno degli organismi di cui i paesi membri si sono dotati diviene ancora più importante: la Banca Centrale Europea (BCE). Spesso al centro delle cronache, la BCE nasce il 1 giugno del 1998, ha sede a Francoforte, e emette circa l'8% della moneta europea complessiva. Agisce prevalentemente sui 15 paesi che fanno parte della politica economica europea, ma può altresì effettuare investimenti o prestiti in paesi non membri. Presieduta dal 1998 al 2003 da Wim Duisenberg, è ora amministrata dall'economista francese Jean-Claude Trichet. Il principale obbiettivo della Banca Centrale è il controllo del livello dei prezzi e dell'inflazione attraverso tre fondamentali strumenti: le operazioni in mercato aperto, la gestione della liquidità, e la possibilità di modificare il coeficente delle riserve delle banche nazionali che la compongono. Il finanziamento dell'organizzazione avviene infatti mediante i versamenti delle banche nazionali che ne fanno parte, e il loro volume è a sua volta determinato dal rapporto del paese con il Pil e con la popolazione comunitaria. Per quanto dipendente dal parlamento europeo, la BCE può vantare una certa indipendenza dalla politica, e dirsi dedita al raggiungimento di obbiettivi puramente economici. Particolarmente attenta al controllo del livello dei prezzi, la Banca Centrale mostra scarso interesse nei confronti di questioni come il livello disoccupazionale, o la qualità della vita della popolazione europea. La sua indipendenza, in un contesto nel quale la realizzazione di un progetto politico comune sembra ancora un miraggio, oltre a mettere in evidenza un progressivo distaccamento tra le esigenze della BCE e quelle dei cittadini europei, evidenzia una scelta ben precisa da parte dei membri dell'Unione: separare politica e economia lasciando carta bianca a quest'ultima. La BCE e la sua indipendenza, evidenziano come gli stati europei si concepiscano tutt'ora come un aggregato economico e non come un complesso prodotto politico. Scindere la politica dall'economia, e considerare la potenza dei numeri sempre e comunque superiore a quella delle parole, significa non credere realmente nel progetto europeo, e concepire invece l'unione del vecchio continente più come un mercato economico privilegiato nel quale tutelare se stessi, che una nuova sfida politica globale in grado di stabilire un nuovo ordine mondiale. La U.E., dalla sua costituzione in avanti, non ha mai messo in discussione un modello economico diverso dal liberismo, ed è per questo che venne considerata una scelta saggia garantire l'indipendenza della Banca Centrale. Fatte alcune rare eccezioni, nessuna delle forze politiche remava verso un ripensamento radicale dell'economia, e sembrava quindi superfluo creare un ponte tra quattrini e idee. Ora che invece il liberismo mostra anche ai più ortodossi i suoi limiti, sono in molti a scagliarsi contro il non vedo- non sento- non parlo della Banca Centrale. In attesa di capire quanto e se la politica statunitense sta cambiando, l'Unione Europea ha la necessità di mostrarsi duttile all'adozione di nuove vie, capace cioè, di lasciare le sue vecchie “certezze” per farsi coinvolgere in progetti radicalmente innovativi, e che magari reintroducano il concetto di etica in quello di economia. E' questa, probabilmente, la strada che garantirebbe a tutti un futuro più roseo, quella del riumanizzare il disumanizzato. Ovviamente non si può pretendere che nel giro di pochi mesi queste trasformazioni siano fulminee, ma sarebbe bene cominciare a far scricchiolare i vecchi fortini, e sarebbe bene che anche la Banca Centrale Europea cominciasse a farlo, magari ascoltando le voci fino ad ora oscurate dal ticchettio delle calcolatrici.

India. dal socialismo al liberismo di destra

Il declino dell’età nehruviana che ha visto la famiglia del primo presidente dell'india indipendente, Jawaharlal Nehru, governare il subcontinente indiano dal 1947 al 1989, è coinciso con un altro grande evento globale: la caduta del muro di Berlino. Da quel momento in poi si è assistito, in India come in molte parti del globo, all'affermarsi delle politiche neoliberiste vincitrici sul “socialismo reale”. L’economia affermatasi nel subcontinente indiano è ormai caratterizzata da una intensa presenza privata, e l’induismo politico non è più un semplice carattere distintivo della società come in passato, ma un vero e proprio progetto volto ad unificarne i membri e discriminarne gli esterni. Il sistema politico indiano non consente più, come prima del 1996, di governare in funzione di partito dominante; servono le alleanze programmate per sconfiggere i propri avversari. I partiti minori hanno acquisito nel tempo un peso sempre maggiore e favorito la crescita esponenziale di due tipologie di partiti: quelli a dimensione locale, e quelli rappresentanti gli interessi castali. Questa tendenza può considerarsi come una delle tipiche conseguenze del processo della globalizzazione. In un quadro tanto complesso quanto confuso, si tende a privilegiare quei partiti portatori di interessi specifici e non gli enormi calderoni burocratici. Nelle ultime consultazioni elettorali di qualche mese fa sia il partito storico del Mahatma Gandhi, il Congresso, che il partito fondamentalista induista, il Bjp, hanno perso numerosi consensi a scapito di partiti molto più piccoli, specialmente verso quelli di sinistra. L'elettorato, spesso depoliticizzato nel senso classico delle contrapposizioni ideologiche, tenta quanto più possibile di salvaguardare o migliorare la propria posizione attraverso l’elezione di rappresentanti della stessa categoria sociale. Espressione di questa particolare tendenza è stata altresì la formazione di un partito portatore degli interessi dei fuoricasta, gli intoccabili, che oggi possono vantare addirittura la presidenza della camera bassa (la Lok Sahba) con la prima donna nella storia del subcontinente ad assumere questo incarico, Meira Kumar . Questo tipo di sviluppi ha portato essenzialmente a tre conseguenze: il moltiplicarsi del numero dei governi e la loro instabilità, l’eterogeneità delle maggioranze, composte da differenti gruppi di interessi, e l’ascesa dei partiti regionali, che hanno acquisito un peso considerevole per la vita dei governi stessi. A partire dalle elezioni del 1996 in poi, le coalizioni di governo non sono più monocolore come in passato, ma rispettano tutte e tre le caratteristiche precedentemente citate. L’evoluzione partitica peggiore dall'indipendenza ad oggi è certamente quella del Congresso ,che un settimanale inglese ha definito come “un insieme di ladri e adulatori”. Con la morte dello storico leader Nehru, si è verificato nel partito un graduale processo di svuotamento ideologico, conclusosi definitivamente con il definitivo tramonto dell’età nehruviana e la morte di suo nipote Rajiv. Il prestigio delle famiglie di appartenenza, in India come in Birmania ed altri paesi, è un vero e proprio lasciapassare politico. Se la tradizione parentelare è solida, un personaggio sconosciuto potrà essere candidato alle più alte cariche dello stato E' questa l'origine della candidatura di Sonia Gandhi, che tuttavia nemmeno alle ultime elezioni si è mostrata particolarmente entusiasta di guidare il paese, e ha lasciato come in passato l'incarico a Manmohan Singh. In un quadro politico divenuto più instabile, i governi che si sono susseguiti negli anni si sono sempre più distanziati dal modello socialista che Nehru aveva tanto auspicato, e hanno di fatto reso manifesto quel che globalmente stava avvenendo con la caduta del muro di Berlino: la resa del socialismo a favore del modello liberista. L'anomalia del sistema politico indiano è che per quanto sia stata diffusa in tutto il mondo la tentazione dei partiti di sinistra di essere conniventi con il galoppante nuovo modello economico, in India questi sono divenuti tra i suoi sostenitori più entusiasti. Negli anni cruciali per il definitivo seppellimento del socialismo reale di Nehru, tutti gli attori politici indiani sembrano sposare la nuova dottrina, anche il leader dei comunisti bengalesi Joyty Basu si è speso in giro per il mondo per convincere i grandi imprenditori ad investire nel subcontinente. Non vi sono dubbi sui risultati di questo nuovo approccio: il pil indiano cresce del 6-7% annuo e il settore informatico è divenuto un faro mondiale, ma qui si parla di economia, se si parlasse di qualità della vita i dati sarebbero ben diversi. Ancora oggi, come allora, sembra non vi siano molti giovamenti per quel 33% della popolazione che, a dire anche delle statistiche ufficiali, non raggiunge il livello minimo economico sufficiente a prevenire la denutrizione. La discrepanza sociale che Nehru voleva assolutamente debellare è ancora in atto. Le politiche adottate sono si in grado di far progredire economicamente l’intero subcontinente ma sono capaci di garantire maggiore equità e giustizia sociale? La logica del profitto è universale e pertanto valida in India come in tutte le altri parti del mondo, ma la situazione indiana è davvero paradossale poiché se la sua economia, nonostante l'odierna crisi economica, continua ad essere ad alto sviluppo, lo stesso non può dirsi del suo livello di benessere collettivo. E’ forse in India più di tutti che si pone la domanda più importante del presente, E’ questo che può realmente definirsi sviluppo?
Le elezioni di qualche mese fa, pur vedendo riconfermata l'alleanza di governo capeggiata da Manmohan Singh, ha visto un significativo passo in avanti dei partiti di sinistra che più di tutti in questi anni hanno premuto verso la critica al governo sui temi sociali. Evidentemente, per quanto assolutamente ancora stabile come modello, il liberismo indiano comincia a subire dei leggeri colpi dal basso. Le fasce più deboli della popolazione sembrano risvegliarsi dal mito del “sogno americano” e rendersi conto che nonostante i numeri descrivano un paese in continua ascesa, la propria condizione è terribilmente stabile se non peggiore.
La mancata reazione a politiche privatistiche così invasive rientra anche nella collocazione che queste hanno assunto in un vero e proprio faro della civiltà del subcontinente, ovvero nel funzionamento delle caste. Queste, assolutamente uniche nel pianeta, vivono di una gerarchia verticale inclusiva, ovvero che per quanto profondamente ineguale tende a includere tutti ii membri in un contesto collettivo basato sulla necessità reciproca. La logica di una superiorità castale per nascita quindi, ben si è sposata con una certa accettazione dello status della povertà. Tuttavia, con passaggi come quello dell'elezione come presidente della camera bassa di Meira Kumar, è facile prevedere che le categorie meno abbienti comincino a porsi sempre più il dubbio che la loro condizione non sia del tutto scritta, e pertanto nemmeno legittima. Questa consapevolezza, qualora divenisse effettiva, getterebbe il paese nel caos. Solo una politica attenta, non solo al dare segnali, ma anche a decifrare quelli in atto, potrà evitare che crescano tensioni pericolose, e rispondere alla richiesta di uguaglianza che arriva da numerose fasce della società. Il paese che divenne la semina di un nuovo e rivoluzionario pensiero quale il gandhismo, è oggi nella condizione di dover scegliere se risolvere definitivamente le sue discrepanze sociali prima che esplodano, o se continuare ad ignorarle e pensare invece ad un accumulo complessivo senza badare alla sua distribuzione territoriale. I modelli, per quanto economicamente efficaci, non potranno mai perdurare nel tempo se non riconosciuti come i più giusti per la comunità., specialmente in un quadro globale ove le tensioni tra gruppi differenti (sia per religione che per differenti status economici) sono in continuo crescendo. L'India dovrà farsi portatrice di un nuovo messaggio. Dovrà dimostrare che è possibile congiungere la crescita economica con il crescere della qualità della vita. Dovrà divenire cioè, come già avvenne in passato, la guida di una “terza posizione” che badi ai valori economici senza dimenticare che, se pur timidamente, se pur silenziosamente, dietro di essi ci sono delle persone.